operai fermi e mastrosimone al nazareno – vergognati!
I fantasmi di Termini sparite con Fiat 120 imprese
Nello stabilimento che avrebbe dovuto trasformare l’economia siciliana ora ci sono solo addetti alla vigilanza e cassintegrati per corsi di riqualificazione
TERMINI IMERESE. Davanti ai cancelli di quella che fu la Sicilfiat oggi c’è un chiosco che vende panini. Nel parcheggio sul mare che ospitava le auto dei dipendenti solo alcune tende colorate dove trovano ristoro i bagnanti. L’area industriale, sospesa fra un passato dai grandi numeri e un futuro incerto, è un deserto che brucia sotto la canicola di agosto. Nello stabilimento-faro, quello che nel 1970 divenne simbolo di una illusoria trasformazione dell’economia dell’Isola e creò una nuova specie di dipendenti a doppio servizio (i cosiddetti “metalmezzadri”, insieme contadini e operai), ci sono solo gli addetti alla vigilanza e un gruppo di impiegati in cassa integrazione che seguono corsi di riqualificazione pagati dalla Regione. Intorno ai 400 mila metri quadri dell’azienda, lungo l’ex via Gianni Agnelli ribattezzata dai sindacati via Primo maggio, erbacce e rifiuti.
Basterebbe lo scenario a parlare degli effetti della crisi da queste parti. Basterebbero i ruderi industriali che testimoniano di un indotto un tempo glorioso. Biennesud, Universalpa, Tecnoimpianti, Clerpem, Ergom, Lear, Imam: rimangono i cartelli ingialliti, non le aziende che vivevano del polmone Fiat e sono scomparse appena il gigante torinese è andato via.
Sono i numeri, però a dare davvero il senso dello tsunami seguito all’uscita del Lingotto: nei primi venti mesi dopo la chiusura dello stabilimento, avvenuta a fine 2011, il Pil della Sicilia è sceso quasi dello 0,5 per cento, con perdite per oltre 825 milioni di euro.
Termini Imerese, da sola, ha perso 3.500 posti di lavoro e il 6,5 per cento di residenti. Secondo i dati di Unioncamere, nel Comune di Termini negli ultimi quattro anni sono sparite 120 attività imprenditoriali. È come se la Fiat, in concorso con la difficile congiuntura, avesse trascinato con sè tutto il resto.
Da sola, la Fiat di Termini dava lavoro negli anni ‘ 80 a 3.200 addetti e altrettanti erano impegnati nelle altre imprese del comprensorio. Il numero dei dipendenti diretti era sceso a 1.900 al momento della chiusura della fabbrica. Oggi rimangono 700 “fantasmi”, i cassintegrati presi in carico Da Blutec, la newco partorita dal gruppo metalmeccanico Metac che fa capo a Roberto Ginatta, che – in un accordo di dicembre con il governo e le parti sociali – si è impegnata a rilevare lo stabilimento e a far ripartire la produzione entro fine anno, utilizzando i 290 milioni messi a disposizione da Stato e Regione.
E accanto ai “fantasmi” ci sono le ombre: quelli che riguardano l’effettivo versamento da parte dell’azienda di 18 milioni di capitale, sui 24 deliberati, e l’ulteriore ricapitalizzazione fino a 100 milioni che doveva avvenire entro giugno. È stato disdetto e non più convocato, al ministero per lo svuluppo economico, un tavolo di verifica degli impegni.
Linda Vancheri, ex assessore della giunta Crocetta, prima di lasciare qualche giorno fa ha sollecitato una nuova riunuione. «L’impressione è che ci sia qualche problema ma resto ottimista. Moderatamente», dice la Vancheri. E i sindacati hanno già lanciato l’allarme. Domani una delegazione della Fiom si prsenterà al Nazareno per chiedere chiarezza ai vertici del Pd (e del governo): «La verità è che l’accordo di dicembre sulla reindustrializzazione dell’area è ancora lettera morta e noi vogliamo il rispetto degli impegni presi», afferma Roberto Mastrosimone, leader delle tute blu anche lui in cassa integrazione. Ancora viva, d’altronde, la delusione per la forzata rinuncia di una lunga sfilza di pretendenti all’eredità della Fiat: Gianluca Rossignolo della De Tomaso, il finanziere Simone Cimino, l’imprenditore del settore vivaistico Corrado Cicolella (tutti finiti nei guai giudiziari). E ancora Massimo Di Risio (Dr Motors), la svizzera Radiomarelli e Grifa. Era stato direttamente Matteo Renzi, alla vigilia di Ferragosto di un anno fa, a dire davanti ai cancelli di Termini «che non fare più macchine, qui, sarebbe una sconfitta». Di lì a pochi mesi la svolta: via Grifa, ecco l’intesa con Metec sulla cui solidità finanziaria oggi si solleva qualche interrogativo. Confermata da ambienti di governo: il Mise, si apprende, sta lavorando per consilidare l’operazione con l’ingresso di un altro partner al fianco di Blutec.
A metà settembre se ne saprà, ufficialmente, di più. «Ci abbiamo messo la faccia e manterremo gli impegni», dice il sottosegretario Davide Faraone. Anche perché in ballo c’è il futuro di altri 300 dipendenti di cinque aziende dell’indotto: 120 da maggio non percepiscono l’assegno di cassa integrazione e centosettanta in mobilità.
Nel deserto di Termini queste mille persone rimaste senza lavoro cercano ancora una strada. «Finora su Termini si è solo giocato. Abbiamo assistito a una danza di imprenditori interessati, più che al rilancio dell’area, a quei 300 milioni di capitale pubblico», attacca Alessandro Albanese, presidente di Confindustria Palermo.
Ma in molti, ora, mettono sotto accusa un modello di sviluppo superato, un’industria dell’auto nata coi fondi pubblici e svanita come il sogno della chimica di Stato che nell’area di Termini Imerese è rappresentato da uno scheletro verde, scrostato, visibile dall’auostrada. In quest’angolo di Sicilia, in attesa della ripresa, si sovrappongono le testimonanze dei fallimenti.
La Repubblica
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